Gabbris Ferrari

da maggio a ottobre

di Gabbris Ferrari

2012

dal Catalogo della mostra “Il Paesaggio inquieto” 4 febbraio – 12 marzo 2012 Rovigo

Come condensare in una unica stagione tutto ciò che ho in mente di fare?

Tornare alla pittura anzitutto.

Per me la difficoltà maggiore è quella di utilizzare tecnicamente un linguaggio trascurato da lungo tempo, anni di lontananza, anni impiegati a concentrarmi su altri interessi: il teatro prima di tutto e poi il lavoro con i miei studenti nelle Accademie, le molte ricerche e le proficue esperienze con la didattica del teatro. Ritrovare l’interesse per la pittura dopo così lungo tempo procura un senso di gioiosa inquietudine, come per un vecchio amore inaspettatamente riacceso.

C’è un dato positivo da considerare e cioè che non ho buttato via nulla di tutti questi anni passati nei teatri e delle molte esperienza maturate giorno per giorno, con l’insegnamento nelle Accademie di belle Arti e se ciò trapelasse nei diversi capitoli di questo lavoro ne sarei particolarmente felice. Specialmente per talune scelte mi piacerebbe fosse evidente il frutto dei molti interessi da me coltivati.

Questa è una delle ragioni che hanno orientato l’intero ciclo di opere esposte in questa mostra la quale si potrebbe anche definire riassuntiva rispetto alle diverse stagioni della mia vita e alle innumerevoli “attrazioni” che hanno spesso condizionato il mio cammino. Nel momento in cui scrivo le poche righe di questa nota il progetto volge alla conclusione e come per uno spettacolo che finisce: ciò che è detto è detto.

Forse un breve riassunto della “trama” potrebbe semplificarne la lettura anche se il più delle volte l’autore, come spesso si dice e forse con ragione, risulta il meno adatto a questo scopo ed è il motivo per cui mi limiterò ad una cronaca essenziale evitando il rischio di entrare in qualche supponente dettaglio concettuale.

Si può cominciare con “i legni” raccolti durante le molte incursioni in laguna alla ricerca dei materiali giusti, relitti di ogni genere approdati silenziosamente sulla spiaggia e dopo lunga navigazione abbandonati dal mare. Materiale da selezionare con cura, ripulire, assemblare, nobilitare attraverso il gesto creativo che, purtroppo, non sempre riesce a infondere alla materia una nuova vitalità. Da mettere in conto anche le molte ore camminate lungo gli arenili o sul bordo sassoso di vaste paludi che la mia terra, da tempo immemorabile , difende dall’invadenza del mare. In queste spedizioni, quasi sempre, mi accompagna o addirittura mi precede il mio amico Giorgio, senza dubbio più esperto di me nella ricerca e, per fortuna, anche più agile. Giorgio da molto tempo pratica le arti, la pittura, la scultura, ma vanta un passato di valente marinaio e lo si capisce da come parla del mare o quando scambia opinioni con il suo compare Fernando, guardiano di valle, a proposito di certi metodi per ingannare le anguille, o come funziona nella stagione fredda il ricambio delle acque.

È una terra questa che sempre mi sorprende e mi emoziona, una terra che muta di continuo spesso attraverso l’opera dell’uomo, talvolta nefasta, o a causa dell’inesorabile alchimia della natura che qui combina, in un delicato equilibrio, materie così diverse fra di loro. A lungo ho considerato nel mio immaginario una semplice questione di appartenenza casuale il rapporto con il Polesine ma vivendo da qualche tempo con più amorevole assiduità il delta del Po ho maturato, in breve, una nuova consapevolezza e nel contempo l’urgenza di realizzare, in pochi mesi, un certo numero di quadri di grandi dimensioni dedicati a questo mio “paesaggio inquieto”. Anche opere dipinte con una materia scarna e veloce alla ricerca di inconsuete risposte, gioiose possibilmente, forse metafore di un tenero dialogo che si sforza di parlare al presente.

Lo spirito che traspare invece da un altro settore della mia mostra nasce da un tenero affetto che ancora provo verso talune piccole fotografie con i bordi seghettati che raffigurano la mia vecchia aula di scuola media nella quale si intravvede, fra l’altro, una lavagna monumentale e un grande armadio nero di legno. Nella foto l’armadio è chiuso ma io so che dentro, accuratamente riposti, c’erano i solidi di gesso che il professor Pinelli usava per le sue lezioni sulle regole della geometria e della prospettiva. Pinelli avrebbe poi lasciato ogni cosa in eredità ad Angelo Prudenziato, suo valente successore nella scuola e mio unico maestro. Forse per dare un senso di modernità a quegli oggetti antiquati, Prudenziato li riclassificò come figure metafisiche, con tutta probabilità per via dell’uso dechirichiano della geometria. Confesso che per diverso tempo il concetto di Metafisica mi risultò oscuro, almeno fino a quando non riuscii a comprendere pienamente la lezione di Prudenziato il quale aveva intuito il valore poetico di quell’armadio e del suo contenuto. Nell’intento di riavvicinare due stagioni così lontane rivivono, ovviamente in forma allusiva nella mia mostra sia l’armadio della metafisica che la lavagna delle geometrie. Entrambe portano nel catalogo, credo giustamente, una doppia data dal momento che la loro esistenza come opere d’arte cominciò a maturare fin da quel lontano 1950.
C’è un capitolo che si intitola geometrie e paradigmi e corrisponde, almeno in parte, all’amore che coltivo da sempre per la pittura tardo medioevale, Giotto soprattutto e lo stupore per il sublime rapporto che si crea nelle sue opere fra spazio e volume. Per dare concretezza a queste passioni mi avvalgo semplicemente di geometrie e stereotipi: il cono ad esempio o la piramide, figure che in taluni lavori diventano strumenti di una essenziale duttilità formale e si prestano docilmente alle esigenze del mio studio. Ricompaiono anche nei pochi quadri e nei disegni che raccontano di storie d’astrologie e di viaggi attraverso il cosmo: l’umanità, ossessionata nella ricerca di una nuova Itaca, porta con sè le sue macchine, gli strumenti, i veleni, e quant’altro possa garantire la continuità della specie e le sue abitudini.


Ho affidato all’intransigente pittura il compito di seguire, in taluni casi, la traccia tortuosa di una vita, cioè la mia. Altre volte, invece, assecondando l’innata curiosità, gli umori dell’estate o l’inquietudine dei giorni e delle notti, ho impiegato materiali diversi dalla pittura, prima di tutto per evitare il rischio di noiose ripetizioni, ma soprattutto per sfidare il tempo e concentrare in una sola stagione calda, il massimo delle possibilità in condizioni di lavoro e di sussistenza particolarmente favorevoli. Il sostegno e la collaborazione impagabili di Giorgio Mazzon e di sua moglie Fiorenza hanno sconfitto la mia crescente pigrizia e la scarsa fiducia di poter ritrovare l’energia di un tempo. Nella fatidica “certa età”, il segreto è forse quello di inventare le mosse giuste per battere il tempo, depistarlo con imprevedibili scatti di novità e di coraggio.